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babbano
Le cronache dell’Ombra
Episodio I

By Apple90 [©]


Prologo

14 marzo 1975
Biblioteca Internazionale del Cairo


David Boyle corse a perdifiato lungo un corridoio fiancheggiato da scaffali stracolmi di antichi volumi. Stringeva in mano un rotolo di pergamena e le suole delle sue scarpe producevano un ritmico ticchettio che rimbombò fin nelle volte più alte del soffitto. Sfortunatamente non aveva un fisico molto atletico né si era mai aspettato di ritrovarsi un giorno in una situazione del genere. Il suo inseguitore era decisamente più magro e veloce di lui. Non aveva possibilità. O la resa, o la vita.
Si voltò un istante durante la corsa. Ebbe l’impressione che il suo cuore gli cedesse per la paura.
L’uomo che lo stava inseguendo indossava un largo mantello nero. L’ombra scura era proiettata lungo le pareti. Aveva pupille rosse e malvagie come quelle di un falco, ed il suo respiro rassomigliava parecchio al sibilo di un serpente. Lo sentì gridare qualcosa in lontananza. Un attimo dopo, una luca verde saettò poco distante dal suo orecchio, facendolo sobbalzare.
Boyle seppe che doveva sbrigarsi per difendere il suo Tesoro. Svoltò a destra, dietro una statua raffigurante un Dio greco, e si gettò a capofitto all’interno della sezione della biblioteca chiusa al pubblico, dove il cartellino all’entrata diceva “Solo personale autorizzato”. Era il luogo dove gli storici restauravano e studiavano le centinaia di manoscritti presenti nella vasta biblioteca. Lui lavorava lì, conosceva quei posti meglio delle sue tasche. Infilarsi in quel labirinto di corridoi era l’unico modo per seminare quell’uomo. Non sapeva chi era né che cosa volesse da lui, ma aveva paura, e la sua coscienza era abbastanza cauta da suggerirgli che fuggire per il momento era la prima delle sue preoccupazioni.
Alle sue spalle, l’inseguitore gridò qualcos’altro in una lingua a lui del tutto conosciuta. Boyle corse in avanti, accelerando il ritmo, ma non si accorse di un volume polveroso che improvvisamente era crollato da uno scaffale, adagiandosi rumorosamente sul pavimento. I suoi piedi vi inciamparono sopra e rovinò precipitosamente a terra. << No, no!>> farfugliò, spaesato, mentre il rotolo gli sfuggiva dalle mani.
Avvertì i passi dell’inseguitore che si attenuavano, poi la sua ombra lo superò con un agile balzo, dirigendosi nel luogo dov’era caduto il suo tesoro. Guardò il suo mantello nero ed il cappuccio che gli copriva volto. Non riuscì a vederlo in faccia, ma ebbe paura, troppa paura, e rimase coricato a terra in quella goffa posizione. <<… la mia mappa.>> gemette infine.
L’uomo si volse, e scoppiò in una risata tetra. Brandiva un pezzo di legno in mano. Si chiese che utilità potesse avere armarsi di un fuscello del genere.
<< Non mi serve la tua mappa.>>
La sua voce era priva di ogni briciolo di felicità. Lo vide chinarsi sul rotolo di pergamena, e puntare il rametto contro di essa, in un movimento elaborato. << Rivela i tuoi segreti.>> sibilò malvagiamente.
Boyle si sfilò gli occhiali scheggiati dalla montatura rettangolare. << La prego… la mia mappa…>>
L’incappucciato questa volta emise un verso lamentoso. Lo vide voltarsi con rabbia e scrutare i suoi occhietti porcini attraverso il tessuto scuro del cappuccio. << Ho detto che non mi serve la tua mappa!>> Levò in alto il ramoscello di legno, e dalla sua punta ne scaturì una forte luce verde, che lo travolse in pieno. David Boyle non ebbe il tempo di socchiudere gli occhi né di formulare alcun pensiero. Fu proiettato lontano, e cozzò brutalmente la schiena contro la parete, adagiandosi a terra privo di vita come una bambola di pezza. Il suo grido acuto rimbombò nella biblioteca buia. Fu un attimo. Poi tornò il silenzio e nessuno sembrò accorgersi di cos’era accaduto. Dovevano avere disattivato gli allarmi. Niente e nessuno capì che un uomo era stato ucciso.
Una risata invase la biblioteca.
L’Incappucciato tornò a scrutare la pergamena, e quando ne ebbe appreso il significato la adagiò senza molta attenzione accanto al corpo dello storico. Ora che aveva capito, non aveva più bisogno di leggerla. Eppure quell’uomo la possedeva da anni, e mai e poi mai era riuscito a venire a capo di quell’enigma. Sfiorò il suo corpo grassoccio privo di vita, e lo urtò leggermente con il piede per verificare che fosse morto. Lo era. << Stupido babbano.>> sibilò sorridendo, per poi avvolgersi nel mantello scuro e sparire nel nulla nell’oscurità dal quale era apparso.


*


12 settembre 1986
Gerusalemme

Il tunnel era buio e soffocante. Dall’aria viziata che filtrava a fatica al suo interno, era evidente che nessuno ci avesse messo piede da qualche millennio.
Nonostante ciò, l’archeologo Vincent Le Renoire decise di proseguire la sua discesa all’interno di quel tempio di Gerusalemme. Non era un tipo qualunque. A quarant’anni suonati con due lauree sotto il braccio, si era guadagnato la stima di tutti i suoi colleghi. Adesso era divenuto Il “Grande” Vincent Le Renoire, colui che aveva esplorato anfratti più profondi della piramide di Cheope e ritrovato il maggior numero di reliquie preziose considerate fino a quel momento solo leggende. Il suo compito era uno solo. Ritrovare i tesori dell’antichità per conto dei Musei più prestigiosi del mondo. Un cacciatore di reliquie. Un Indiana Jones della nuova Era.
Il Museo del Cairo lo aveva pagato profumatamente per spingerlo alle ricerche del Tesoro dei Templari. In realtà, più che altro si trattava di una leggenda.
Erano state create tante storie e moltitudini di dicerie sul passato, ma le prove dichiaravano per certo che erano esistiti veramente.
Il facchino palestinese alle sue spalle, che reggeva una lanterna, emise un grido strozzato non appena affondò il viso in una ragnatela. Vincent lo sentì agitarsi alle sue spalle. Si volse, e lui tacque. Stavano per portare alla luce una delle più clamorose scoperte della storia, e non intendeva che la gloria gli venisse rovinata dalle stupide paure di uno stupido facchino.
<< Javil, passami la torcia.>>
L’ometto distolse lo sguardo spaurito dalla ragnatela, ed obbedì.
Vincent la utilizzò per illuminarsi il passaggio. Sfociarono in uno stretto cunicolo dal quale scorse un minuscolo spiraglio di luce. In cuor suo, sperò di essere quasi arrivato alla salvezza.
Era da una decina d’anni che stava seguendo le orme degli antichi Cavalieri Templari, ed ora che aveva trovato la chiave di lettura per scoprire dei nuovi reperti, non poteva certo tirarsi indietro. Aveva ottenuto una pergamena dal museo Internazionale del Cairo riguardante un certo Jean De Sant-Clair, nato nel 1351. Dalle innumerevoli ricerche sul suo conto, non era stato ritrovato niente di significante sul suo passato. Un uomo nobile. L’unica cosa che sapeva. Secondo le genealogie dei documenti del Priorato, era stato eletto membro onorario grazie ad una discendenza con i De Bar, potente famiglia da millenni a capo del Priorato del Sìon. Una scoperta sensazionale. Sul resto della pergamena, aveva rilevato l’abbozzo di una mappa. Poteva trattarsi del nascondiglio del tesoro che da secoli i Templari celavano con così tanta discrezione. E lui, dopo un’intera vita trascorsa a ripercorrere la storia, stava per trovare quel tesoro.
Non credeva ancora alla fortuna sfacciata che aveva avuto nel ritrovare quella mappa.
Il Museo dei Cairo gli avrebbe permetto di tenere il 10 per cento del bottino se lui avesse donato la parte restante al loro museo, e da quello che aveva capito di oro e gioielli ce n’era abbastanza da riempirci un’intera cattedrale.
Il fioco bagliore della torcia illuminò una parete di mattoni di argilla dov’era raffigurata una scrittura rupestre, simile a dei codici cifrati utilizzati dalle popolazioni Precolombiane nell’America del Sud per indicare i loro nascondigli sotterranei.
Vincent la osservò con attenzione. Era una specie di Giglio intrecciato in dei ghirigori complicati. Lo Stemma del Priorato, la congrega antica sulla quale da sempre aveva effettuato una marea di studi. Adesso si trovava lì, nei sotterranei di Gerusalemme, a rimirare quel medesimo stemma. Poteva essere la chiave per aprire la porta che nascondeva il tesoro. Vincent si volse, ed osservò il facchino con noncuranza. << Javil, mi serve la mappa.>>
L’uomo prese a frugare nel borsone che portava a tracolla, fino a quando non ne estrasse un pezzo di pergamena ripiegata, che Vincent gli strappò di mano per rimirarla attentamente. << Si diceva che il Priorato abbia avuto sede in un’Ala del Tempio di Salomone, poco distante da qui.>> mormorò tra sé, pensieroso. << Forse nelle loro leggende, può nascondersi la chiave per aprire questa porta.>>
<< Signore, io…>>
<< Silenzio, per favore. Non muoverti, e fai silenzio…>>
Il facchino posò la borsa a terra ed estrasse una bottiglietta per abbeverarsi. Sentii i biechi rumori dell’acqua che gocciolava per terra alle sue spalle, e ne fu infastidito. Con un movimento rabbioso, si volse e lo guardò male. << Se sapevo che non eri in grado di fare ciò che ti dico, per la miseria… non avrei mai sprecato quei soldi per ingaggiarti nella mia compagnia.>>
L’uomo gli fece un buffo inchino spaurito. << Domando umilmente scusa, signore.>>
<< Sarà meglio.>> sbuffò l’archeologo. << Renditi utile. Tira fuori i miei attrezzi. Credo di aver raggiunto un portale. Forse è questo.>>
<< Va bene, signore.>> Javil si chinò sulla borsa ed iniziò ad estrarre alcune borse di cuoio contenenti tutti gli strumenti che Le Renoire utilizzava durante gli scavi archeologici per riportare alla luci gli antichi reperti.
<< Che Dio stia dalla parte. Se ciò che dico è vero, sono a due passi dal Tesoro dei Templari.>>
Era stanco ed esausto, e per riuscire a consultare la mappa, ebbe bisogno di appoggiarsi con una mano alla parete, trovando un sostegno che lo sorreggesse. << Allora, secondo le antiche scritture ritrovare a Parigi, il tesoro dovrebbe essere…>> Ci fu un rumore sordo, come quello di un masso che rientrava nel muro. L’archeologo si accorse troppo tardi di aver inavvertitamente attivato un pulsante incastonato nella parete. Distolse la mano e fece un buffo passo indietro, chiedendosi se vantarsi o maledirsi per quel che stava accadendo. << Oh, maledizione…>>
La figura del Giglio si spostò pesantemente di lato, rotolando come un masso, lasciando spazio ad un passaggio abbastanza grande da lasciar passare un uomo di media statura.
L’archeologo accese la torcia, e trasse un sospiro profondo. << Aspettami qui, Javil.>> disse, trionfante. << Quando sarò di ritorno, avrai di fronte l’uomo più ricco e potente del mondo.>>

*

24 agosto 1996
Roma

Lungo il ciottolato della vasta piazza di San Pietro, si estendeva una lunga fila di fedeli arrivati da ogni parte del mondo per assistere alla celebrazione religiosa del Papa. Affollavano la piazza come formiche brulicanti, e nonostante fossero in decine di migliaia, il silenzio era uniforme ed irreale.
Il dottor Jonathan Radcliffe stava transitando lungo via della Conciliazione a bordo della sua Station Vagon, e per la prima volta in vita sua si ritrovò a maledire i fedeli e la sorveglianza perché aveva un impegno urgente di lavoro e tutta quella storia della santificazione di nuovi martiri aveva attirato a Roma ben più gente di quanto s’erano aspettati, finendo per creare solo degli immensi e disastrosi ingorghi stradali. Non appena riuscì a superare San Pietro, svoltò sul Lungotevere e costeggiò il fiume in compagnia della melodia degli U2 trasmessa dall’autoradio.
Radclyffe era un uomo colto, intelligente, con una folta barba grigia e profondi occhi celesti. Aveva cinquantadue anni, e lavorava in uno studio nel centro città. Nonostante fosse nato in Inghilterra, aveva conosciuto quasi vent’anni prima una giovane archeologa romana, della quale si era perdutamente innamorato. Le cose per lui erano andate decisamente bene. Mariah aveva deciso di licenziarsi dal lavoro per dedicarsi solo ed esclusivamente alla famiglia, ed erano anni ormai che si prendeva cura delle loro due splendide figlie quando lui era assente per lavoro. Un matrimonio felice. Una bella famiglia ed un lavoro ben pagato. Aveva tutto ciò che un uomo di sani principi avrebbe mai potuto desiderare.
Passò a prendere la figlia minore, Samantha, che doveva essere appena uscita dal conservatorio. Studiava violino, e sua moglie era convinta che un giorno sarebbe potuta diventare una musicista famosa. Al contrario di Helena, la loro primogenita, la piccola Sam non aveva preso niente da lui, tranne che per gli occhi. Uguale e identica a sua madre. Capelli biondo cenere, occhi celesti, alta e slanciata per la sua età. A dieci anni, sapeva già parlare correttamente tre lingue e frequentava un corso di spagnolo in una delle migliori accademie della città. Accostò al marciapiede e la guardò avvicinarsi alla macchina con la custodia del violino a tracolla, il sorriso stampato sul volto.
Samantha entrò in macchina e sedette sul sedile posteriore, sporgendosi solo un istante per baciarlo sulla guancia. << Ciao, papà.>>
<< Buona giornata, tesoro.>> le disse lui di rimando. << Com’è andata oggi?>>
<< Oh, tutto bene.>> borbottò lei. << Tutto okay.>>
“tutto okay” era la risposta che gli dava sempre, in ogni occasione, anche quando aveva dei problemi e non voleva confidarli a nessuno. Era una ragazza fatta a suo modo. Doveva solo imparare a conoscerla meglio. Con tutto quel lavoro, stava seriamente trascurando le sue due gioie.
<< Passiamo a prendere Helena.>> annunciò, mentre ingranò la marcia. << Quando le ho telefonato, mi ha detto che si trovava al Giannicolo assieme ad alcune sue compagne. Dipingevano.>>
<< Oh, già… lei e le sue manie della pittura.>>
<< Non commentare le passioni di tua sorella. Dipingere è un arte, come la musica…>>
La bambina tacque. Sembrava che odiasse tutto quanto stava attorno a lei: a partire dall’arte, da quella macchina costosa e dalla persona che la stava portando a casa.
Jonathan Radclyffe decise di ignorarla per il resto del viaggio. Quando faceva così, voleva solo farlo arrabbiare. Succedeva sempre con lei. Non riuscivamo mai a capirsi, e lui era cosciente di non andarle mai incontro per poter raggiungere qualche armistizio. Guidò fino al Giannicolo e parcheggiò lungo un viale alberato, dal quale si godeva il panorama dell’intera città ai loro piedi. Parcheggiò in un area a pagamento, e si preoccupò di infilarsi in tasca un pacchetto di sigarette prima di scendere dall’auto.
<< Tesoro, resti in macchina?>>
Samantha estrasse un walkman e si appoggiò al sedile, rabbuiata. Sì, stava in macchina.
Chiuse in fretta la portiera e se ne andò lungo il marciapiede, verso la piccola aiuola dove sua figlia, durante l’estate, amava venire a dipingere il panorama romano. Frequentava il liceo artistico, ed il suo sogno era diventare una stilista. Raggiunse con passo svelto lo spiazzo immerso nel verde, convinto di trovare cinque sedicenni impegnate a ritrarre il paesaggio sui loro blocchi da disegno. Ma questa volta Helena non c’era, e nemmeno le sue amiche. Rimase spiazzato. Non sapeva cosa pensare.
Eppure gli aveva detto di farsi trovare lì per le sei e mezzo per poterla riaccompagnare a casa. Guardò l’orologio. Le sei e venticinque. Era impossibile. Helena era sempre stata una ragazza puntuale e precisa. Se fosse andata a casa con un altro mezzo di trasporto, l’avrebbe subito avvisato.
<< Buongiorno, Radclyffe.>> disse una voce fredda alle sue spalle, in inglese.
Jonathan si volse di scatto, impaurito. Era un uomo. Non proprio. Un ragazzo. Vestiva elegante, con un frac d’altri tempi, ed i capelli neri unticci gli stavano incollati sulla fronte. Aveva qualcosa di strano nello sguardo, come se lo stesse aspettando da ore. Ebbe paura.
<< Buongiorno a te.>> rispose Radclyffe, in inglese, cercando di nascondere il proprio disagio. << Hai… ecco… bisogno di aiuto, ragazzo?>>
Il ragazzo rise e scosse il capo. << Mi stavo solo chiedendo dove lo sta nascondendo, signore.>>
<< Nascondendo?>> Radclyffe ridacchiò. Doveva essere matto. << Forse ti stai sbagliando, io non…>>
<< Non mi sbaglio, signore. Non mi sono mai sbagliato. E mai sbaglierò.>>
Guardò meglio il giovane. Non sapeva se ridergli in faccia, o stare al gioco. << Come ti chiami, ragazzo?>>
<< Tom.>> rispose lui, con noncuranza. << Tom Riddle.>>
Strano. Un inglese con un frac polveroso a Roma. Forse era un’allucinazione.
<< E dove sono i tuoi genitori, Tom? Sei qui da solo?>>
<< I miei genitori non ci sono al momento.>> disse di rimando il ragazzo. << Dove lo nascondi?>>
Radclyffe capì al volo. Forse era uno di quei tanti ragazzi che uscivano di senno con la droga e con le canne e poi sparivano all’improvviso da casa, girovagando come vagabondi per la città senza una meta ben precisa. Estrasse il telefonino per chiamare la polizia, ma nello stesso istante nel quale lo prese in mano, esso si spense. Dovevano essere le batterie.
<< Dove lo stai nascondendo, sporco babbano?>> proseguì il ragazzo. << Voglio saperlo.>>
L’uomo trasse un profondo sospiro, e lo guardò con un misto di pena e compassione. Babbano. Doveva essere l’effetto di qualche allucinogeno a renderlo così.
<< Nascondere? A cosa ti stai riferendo?>>
Il ragazzo rise. Una rissata fredda, priva di gioia. << La fenice.>>
Improvvisamente, Radclyffe capì, e la sua paura aumentò e finì per attanagliargli lo stomaco. Fece due passi indietro, traendo un profondo sospiro. << Non so a cosa ti stai riferendo.>> mentì. Ma la verità era un’altra. Aveva dedicato la sua vita a proteggere quel segreto con tutto sé stesso, senza spiegare a nessuno, nemmeno alla sua famiglia, chi fosse in realtà. Non l’avrebbero capito. Nessuno avrebbe mai capito. Ma da quello che aveva sentito al telegiornale una decina di anni prima, un archeologo si era messo dietro le tracce del tesoro senza nemmeno sapere che occorreva una chiave per aprirlo. Non aveva trovato niente. Era ovvio. Nessuno sapeva dov’era custodito e non bastava esplorare dei sotterranei di un’antica città per riportare alla luce quelle ricchezze.
Doveva proteggere la Fenice. Doveva farlo per il suo antenato, che era stato un membro del Priorato.
<< Io non sto nascondendo niente.>> lo disse forte, quasi per convincere sé stesso.
Il ragazzo non demorse, e scoppiò in un’altra fredda risata. << Dammelo, subito.>>
<< Non nascondo niente!>>
<< Come vuoi.>> il giovane estrasse da una tasca interna della giacca una specie di bacchetta di legno, e gliela puntò contro. << Consegnami il Medaglione della Fenice e non ti farò del male.>>
Radclyffe storse il naso. Gli sorrise. << Avanti, credi di farmi paura maneggiando quell’aggeggio da cartomante, ragazzo? Smettila con queste buffonate. Adesso prendo il cellulare, telefono alla tua famiglia così puoi tornare tranquillamente a ca…>>
<< AVADA KEDAVRA!>>

Samantha stava ascoltando la musica con il suo walkman quando avvertì una vibrazione che mosse l’automobile. Si voltò, e vide una luce verde che aveva invaso la piazzola dove poco prima suo padre stava chiacchierando con quel ragazzo strano. Il cuore le batté forte all’impazzata. Non riusciva a capire che cosa stava succedendo. Vide che il ragazzo strano teneva in mano un ramo. Poi la luce svanì ed ebbe la visione del corpo di suo padre riverso per terra. Le lacrime le defluirono agli occhi e si affacciò dal finestrino, per riuscire a vederlo meglio. Non poteva correre fuori, altrimenti quel pazzo avrebbe fatto del male anche a lei. Aveva paura, e nello stesso tempo avrebbe voluto scaraventarsi fuori dalla macchina e gettarsi contro quel tizio. Non lo fece. La gola, le gambe ed i muscoli non rispondevano più ai suoi comandi. Si limitò a rimanere lì immobile, la bocca semiaperta, gli occhi rigati di lacrime.
<< Papà…>>
Il ragazzo si chinò sul corpo del padre (che sperava fosse solo svenuto) e perquisì ogni tasca alla ricerca di qualcosa. Un ladro, ecco cos’era. Non era interessato al portafoglio né al telefonino, perché quando se ne andò di corsa, sparendo all’improvviso in una nube di fumo, aveva l’impressione di uno che non era riuscito a trovare ciò che stava cercando.
Samantha aprì la portiera e corse a perdifiato dal padre. Quando lo raggiunse, preoccupata, si rese presto conto che non c’era molto da fare per riuscire a soccorrerlo. I suoi occhi celesti scrutavano vuoti il cielo, privi di vita. << Papà…>> Si chinò, e pianse per quelle che le parvero ore, fino a quando un passante non capitò da quelle parti e non chiamò un’ambulanza.
Non riusciva ancora a capire cosa stava accadendo. Erano successe troppe cose in troppo poco tempo. Il padre, sua sorella scomparsa, quello strano ragazzo. Era confusa. Non capiva più nulla, ormai. Voleva staccarsi dalla folla, starsene sola, piangere in silenzio senza che nessuno la vedesse, ma ognuno sembrava opprimerla. Tornò avvilita alla macchina, mentre ormai attorno a loro s’era radunata una folla di curiosi ed un medico di passaggio stava tentando un ultimo e straziante massaggio cardiaco. Non voleva vedere. Non voleva credere che suo padre fosse appena morto. Le mani le tremavano mentre aprì la portiera. Un luccichio dorato attirò il suo sguardo nei pressi dell’accendisigari. Lo afferrò fra le dita, estraendolo dal vano portaoggetti. Non era un accendisigari. Era troppo grande. Svitò la parte superiore e la rivolse in basso, per verificare che dentro ci fosse qualcosa. Un pezzo metallico le scivolò in mano. Un medaglione…


20/08/2006 15:14
 
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babbano
Capitolo 1
L’epoca dei ricordi

Harry si portò stancamente le mani nei capelli, lasciandosi cadere sul divano, l’aria disperata di un ragazzo che ha perso la voglia di vivere. Sapeva che la sua innata testardaggine prima o poi lo avrebbe portato a commettere azioni troppo avventate. Ma farsi licenziare dopo quattro anni di onorata carriera al Ministero; quello non riusciva proprio a sopportarlo. Era un Auror di tutto rispetto, e lo avevano inviato in incognito oltre i confini del Mondo Magico, alle calcagna di un commerciante illegale di tappeti volanti di nome Abù Sadir, che aveva traffici un po’ ovunque nel mondo. Per quasi otto mesi aveva vissuto in uno squallido appartamento nelle periferie londinesi, dedicandosi interamente alla sua missione, senza mai avere una sola distrazione. Dopo fallimenti, piste sbagliate, soffiate non vere, aveva quasi raggiunto il suo obiettivo, e se l’era visto sfumare via.
Il problema era uno solo: Harry era arrivato ad un passo dal risolvere il caso, ma gli avevano ritirato il distintivo ed il grado di Auror. Ora non era più nessuno, non aveva un lavoro né un futuro. Non aveva più nulla, solo sé stesso ed i suoi stupidi problemi che erano riaffiorati dall’ombra, dopo anni che non li risolveva. Il dirigente dell’ufficio della Difesa al Ministero aveva deciso di cacciarlo via per colpa di un duro contro con un Mangiamorte avvenuto una settimana prima in pieno centro cittadino. Harry era stato attaccato, e s’era ritrovato a scagliare incantesimi di difesa di fronte ad una scolaresca in gita scolastica. Poteva immaginarsi il resto. Ormai mezza Inghilterra parlava di maghi e si streghe e dell’avvistamento di quel “buffo” ragazzo occhialuto alle prese con un essere incappucciato. Nel mondo dei Maghi aveva appreso la notizia ancor prima che fosse rilasciata in città. Sapevano tutti ormai che Harry era seguito dai seguaci di Voldemort. Lui era ancora vivo, lo sentiva. Altrimenti tutti quei rapimenti al telegiornale sarebbero stati frutto solo di una pura invenzione.
L’ultima volta che lo aveva incontrato aveva diciassette anni e mezzo ed aveva rischiato seriamente di morire. Adesso, che ne aveva ventiquattro, aveva affrontato pericoli ben peggiori e Voldemort era magicamente diventato l’ultimo dei suoi problemi. Il suo lavoro di Auror fino a quel momento lo aveva tenuto impegnato per troppo tempo al di fuori del mondo magico ed aveva finito per perdere tutti i suoi vecchi compagni. Tutti tranne Neville, che lavorava nell’ufficio di fianco al suo (Uso Improprio della Magia) e spesso erano intervenuti assieme in alcune delicate missioni per conto del Ministero.
Harry emise uno sbuffo e si sfilò gli occhiali, lasciandoli andare a fracassarsi sul comodino. Perché era stato così stupido? Perché aveva scagliato un incantesimo “Expelliarmus” proprio in mezzo ai babbani? Jonathan Morgus era cugino di secondo grado con i Malfoy, e come si ci poteva aspettare aveva fatto di tutto per licenziarlo alla prima occasione. Ma Harry non poteva ribattere. Era il suo capo, dirigeva l’Ufficio della Difesa e regolava anche i contatti con tutti gli Auror inviati in ogni anfratto del pianeta. Era lui che mandava avanti la giostra, e questa volta il suo licenziamento se l’era solo e soltanto cercato.
E adesso? Dove poteva andare? Cosa avrebbe fatto? Aveva un’intera indagine in corso, e lo avevano sbattuto fuori. Si sarebbe allontanato da Londra per un po’. Poteva tornare alla Tana, a trovare i Weasley. Erano anni che non si vedevano. Ron… chissà che fine aveva fatto. Doveva tornare. Era giunto il momento di farlo. Ripartire da lì, dal caldo clima famigliare che aveva abbandonato per così tanto tempo, sarebbe stata la mossa migliore per riuscire a superare il trauma del licenziamento.
Morgus gli aveva ordinato di abbandonare l’appartamento entro una settimana. Harry non gli aveva dato modo di sollecitarlo a fare le valige. Aveva ancora quattro giorni di tempo per riordinare tutte le sue cose, ma lo aveva già fatto in tempi record. Un trolley e due valige erano adagiate all’entrata. Quella casa gli forniva ancora molto ricordi, ma doveva cancellarli. Era fuori dal giro, non era più nessuno. Doveva ficcarselo in testa una volta per tutte.
Mangiò qualcosa per cena, più che altro i resti di una pizza abbandonati nel frigorifero da un paio di giorni. Quando ebbe finito, seppe che cosa doveva fare. Svuotò l’armadio della camera da letto e ficcò gli ultimi indumenti nel trolley. Nel completare quel lavoro, avvertì un tremendo senso di nostalgia ed abbattimento che lo travolse. Nonostante avesse vissuto gran parte degli ultimi tempi in solitudine, faceva fatica ad uscire allo scoperto.
Sedette sfinito sul letto, per un ultimo sopralluogo, controllando di aver ricordato tutte le sue cose.
In quello stesso matrimoniale certe mattine s’era svegliato scoprendo di trovarsi accanto a ragazze che aveva conosciuto solo la sera prima in qualche locale malfamato della città, durante alcune indagini. Non aveva mai rivisto nessuna di loro. Nessuna. Forse, era meglio così. Solo per il fatto che era un mago, per il lavoro che faceva, ed anche per il segreto che lì a Londra, in mezzo ai babbani, stava nascondendo ormai da anni. Non era il tipo che si affezionava troppo alle persone. Preferiva mantenere un certo distacco.
Adesso era pronto per andarsene. Passò un attimo in bagno, dove rimirò attentamente il suo riflesso nello specchio. Era cresciuto molto rispetto all’ultimo anno di Hogwarts. I lineamenti non erano più rotondi ed infantili, bensì il suo viso aveva acquistato un’aria adulta, fine ed allo stesso tempo decisa. Non si reputava assolutamente bello, anche se in quegli ultimi tempi aveva capito che piaceva molto alle ragazze, ed aveva finito per ricredersi. Sosteneva che era l’effetto “senza occhiali”. Ormai non doveva più metterli. Durante un brutto scontro nei pressi di Little Wymondley, un Mangiamorte gli aveva inflitto un incantesimo stordente piuttosto mirato per tentare una fuga, e gli occhi di Harry avevano finito per risentirne parecchio. Era costretto ad indossare lenti a contatto apposite che gli permettevano una correzione della vista migliore. Aveva finito per dimenticarsi i suoi occhiali da qualche parte nelle borse da viaggio. Non gli servivano più, ormai. Li teneva solo per ricordo.
Uscì di casa quando la notte era già calata sulla città. Aveva imparato a viaggiare di notte. Nessuno notava la sua strana cicatrice sulla fronte, ed aveva più libertà di movimento. Per evitare scomodità, aveva rimpicciolito i suoi bagagli e li trasportava comodamente in una tasca dei jeans.
Si diresse oltre il cortile del civico 4 in Davinson Street. Il Ministero gli aveva messo a disposizione un garage dove teneva la sua moto. Nel mondo babbano era preferibile non smaterializzarsi, e per potersi muovere senza la restrizione e gli orari dei mezzi di trasporto urbani, aveva speso qualche migliaia di sterline in una Ducati999 color nero metallizzato, che custodiva poco distante dall’appartamento nel quale aveva abitato, e che ora doveva dimenticare.
Digitò un codice sul pannello alfanumerico accanto al garage, e la grigia serranda iniziò ad aprirsi sferragliando. Distinse il muso affilato ed aerodinamico della sua moto affiorare dall’ombra. La portò fuori dal box, e vi montò sopra. Il monitor del GPS satellitare s’illuminò di un bagliore azzurrino, mostrandogli il luogo dove si trovava in quel momento. Harry s’infilò il casco ed estrasse la bacchetta da una tasca. La puntò contro il GPS, ed esso emise un trillo sonoro. Adesso la mappa sullo schermo mostrava non solo la città di Londra, ma tutti i portali e le vie che lo avrebbero potuto condurre nel mondo dei Maghi. Da quello che aveva capito, lungo Soho c’erano diversi lavori in corso. Il metodo migliore per raggiungere la Tana senza farsi notare dai babbani, era quello di utilizzare i condotti fognari sotto Alberth Street. C’era una strada chiusa che conduceva dritta a Nocturn Alley. Non era un luogo molto raccomandato, ma almeno poteva oltrepassare il confine a bordo della sua moto.
Fece una lieve pressione con la mano sull’acceleratore, e le sue All Star si staccarono da terra, dandosi una leggera spinta. Lasciò alle sue spalle quello che era stato il suo rifugio, e contrariamente a quello che pensava, quel senso di smarrimento che inizialmente lo aveva travolto sembrava sparito quasi del tutto, sostituito da un innato senso di libertà. Guidò fino a Fulham e poi svoltò a nord, costeggiando il Tamigi, fino a raggiungere Trafalgar Square. Il monitor del GPS segnalava un ingorgo vicino a Piccadilly. Imboccò un sentiero secondario. Quel che gli interessava di più, era raggiungere la Tana prima che fosse giorno. Dopo la morte di Silente, la signora Weasley aveva sempre insistito per farlo trasferire da loro, ma Harry non aveva mai accettato. Sarebbe stato a contatto con Ginny; e dopo la scoperta di essere stato soggiogato per un anno intero da quella ragazza tramite un filtro d’amore, non aveva nessuna intenzione di rivederla né tanto meno di dormire nella stanza di fianco alla sua.
E poi c’era Hermione…
Durante quegli anni, s’era chiesto mille e più volte dove poteva essere e cosa stesse facendo, ma non aveva mai ottenuto nessuna risposta. Nemmeno Neville sapeva qualcosa a proposito.
Un membro dell’Ufficio per la Correzzione della Magia Accidentale gli aveva detto che una certa signorina Granger, due anni prima, aveva ricevuto un premio onorario dal Ministro della Magia in persona ed un Ordine di Prima Classe per essersi distinta nella lotta contro i Mangiamorte. Cavolate, supponeva. Se c’era un Mangiamorte, c’era anche un Auror alle sue calcagna pronto ad abbatterlo, ed una strega che non faceva parte delle schiere di Auror del Ministero che si cimentava in un opera eroica avrebbe attirato sicuramente molta attenzione. Forse il Ministero preferiva non parlarne. Il fatto era che Harry desiderava più di ogni altra cosa al mondo sapere dov’era finita, ma Hermione Granger era come scomparsa nel nulla. Aveva tentato di spedirle qualche lettera, ma Edwidge era ritornata a casa qualche sera dopo, l’aria abbattuta e la medesima busta ancora legata alla zampetta.
Se fosse arrivato alla Tana, forse, avrebbe rivisto Ginny; ma ora come ora non gli importava un bel niente. Voleva solo trovare Ron e la signora Weasley per poter riallacciare i rapporti, e per potersi sentire finalmente a casa. E poi Ron magari sapeva dove fosse Hermione. Magari continuavano ad essere amici, oppure… Un pensiero orribile gli trapassò la mente. Ricordò i frequenti battibecchi dei due amici ai tempi della scuola. Se tra di loro fosse nato qualcosa? Non riusciva a sopportalo. Seppur fosse sparito di sua spontanea volontà dalla loro vita, provava da sempre un sentimento smisurato nei confronti di quella ragazza. Hermione era unica al mondo. Nessuna persona riusciva a comprenderlo quanto lei, nessuna riusciva a donargli così tanto affetto solo con un semplice sguardo. E l’idea che lei potesse esseri fidanzata, o addirittura sposata con il suo migliore amico, lo faceva stare male da morire. Ma la storia era la solita. Lui era in pericolo costante e temeva che legarsi per troppo tempo a qualcuno avrebbe comportato dei seri rischi per entrambi.
Il rombo acuto del motore lo distolse dai suoi pensieri. S’infilò nella corsia d’emergenza e superò un lento autobus a due piani, inserendosi in seguito lungo un tunnel che sfociava in riva al fiume. Il Tower Bridge illuminato dalle luci della sera era uno spettacolo davvero sorprendente.
Harry trasse un sospiro, e deviò a sinistra, verso il quartiere portuale della città. In una via secondaria, ai pressi di un vecchio cantiere navale, c’era un condotto fognario che l’avrebbe potuto condurre nel mondo Magico senza che nessun babbano si accorgesse di nulla. Era un passaggio poco utilizzato per via del suo collegamento con Nocturn Alley, ma decisamente pratico.
Il GPS lo aiutò a localizzarlo, e fu costretto a discendere un’aiuola a bordo della 999 per potersi incanalare nel passaggio, largo quasi un metro e mezzo. Le vibrazioni lo costrinsero a procedere ad una velocità ridotta, fino a quando non avvertì il famigliare tonfo della ruota posteriore che toccava il terreno solido. Era l’unica parte scoperta di una fogna inutilizzata. Il comune proponeva continuamente finanziamenti per poterlo abbattere, ma Harry era sicuro che il Ministro della Magia avesse parlato con il Ministro inglese ogniqualvolta la pratica venisse inoltrata.
Si trattava di una galleria buia, che i faretti della 999 faticarono ad illuminare. La moto non ebbe problemi a sfrecciare lungo il tunnel. Harry dovette reggersi forte per controllare le vibrazioni prodotte dalle ruote a contatto con il terreno aspro e dissestato.
Impiegò una decina di minuti per sbucare dall’altra parte. La luce notturna non era molto più chiara della galleria. Levò gli occhi al cielo, ed attraverso la visiera del casco individuò la luna che filtrava fioca tra le nubi, emettendo un bagliore tetro su Nocturn Alley, situata a valle, a ridosso della piccola collina sopra la quale si trovava.
Adesso era al sicuro, appena fuori dal condotto, nessun babbano in vista.
Non c’erano sentieri e nemmeno fonti di luce. Solo poche lanterne che costeggiavano le strette stradine di Nocturn Alley, ma faticava a vederle per via di una tetra costruzione che si erigeva per due o tre piani, forse un negozio di articoli Oscuri.
Non aveva tempo da perdere. Era notte, e Nocturn Alley non era mai stato un luogo molto accogliente nemmeno quando c’era il sole. Doveva approfittare di quel momento per smaterializzarsi.
Spense con cautela il motore della moto per evitare che qualche passante poco raccomandabile che si aggirava da quelle parti lo avvistasse. Puntò i piedi a terra, rimanendo in sella alla moto. Socchiuse i suoi occhi verdi ed avvertì un lieve strappo appena dietro l’ombelico.

20/08/2006 15:15
 
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babbano
Capitolo 1
(parte seconda)

Samantha Radclyffe si era sempre chiesta come mai i guai riuscissero a trovarla ovunque, anche quando stava cercando disperatamente una camera dove soggiornare per la notte. Era a Londra per una vacanza studio, ma purtroppo la famiglia che la ospitava per lo scambio culturale promosso dall’Università di Lingue di Roma aveva subito un grave lutto, e le aveva spiegato con chiarezza che non poteva rimanere da loro. Non aveva capito bene cos’era successo, il fatto era che erano quasi le undici e mezza di sera e lei era sola, in una città che non dormiva mai, senza un luogo dove andare. La famiglia Richards le aveva consigliato di tornare alla sede dell’ambasciata italiana dalla quale Samantha avrebbe potuto trovare aiuto, ma si era dimenticata il portafoglio da loro e non disponeva di soldi per chiamare un taxi. Un inferno. L’ideale era dirigersi alla polizia e spiegare con calma ciò era successo. Quegli incivili non potevano abbandonarla quando volevano su un marciapiede! La madre a Roma aveva ospitato a sua volta un sacco di giovani studenti inglesi. Uno scambio culturale funzionava così, di solito. Non era mai capitato che la studente fosse costretta a vagare per le strade della città senza meta! Un lutto… ma chi stavano prendendo in giro? Se anche fosse morto il nonno o un cugino, perché lei non poteva rimanere ancora in quella casa? Cos’aveva di sbagliato? Sbuffò disperata, mentre s’incamminava per Soho alla ricerca della stazione di polizia più vicina, indicata da un’insegna dall’altro lato della strada.
Un medaglione argentato le penzolava al collo. Un portafortuna che la accompagna ovunque. Raffigurava una Fenice dalle ali spiegate. Era l’unico ricordo che possedesse di suo padre, dopo la sua tragica morte.
Un tizio avvolto in un impermeabile color topo era appoggiato alla pensilina vicino alla fermata del bus. Aveva un’aria particolarmente sinistra. Non era il tipo di persona sulla quale avrebbe potuto fare affidamento. Samantha si strinse nella giacca, camminando con passo spedito. Si accorse che quell’uomo s’era a sua volta incamminato nella sua stessa direzione. Udiva i passi alle sue spalle. Avanzò rapidamente cercando di mischiarsi ella folla. Voltandosi un istante, scoprì con sua disarmante paura che l’uomo la stava inseguendo. Soffocò un grido e cominciò a correre. Aveva pure iniziato a piovere, dannazione. Capitavano tutte a lei. Tutte. Non aveva un minimo di fortuna. L’acqua iniziò ad inzuppargli i vestiti, e rendergli le scarpe da ginnastica di tela due umide fette di gomma appiccicosa.
Ma il destino non sembrava aver smesso di accanirsi contro di lei.
Mentre sfrecciava per la via, zigzagando tra la folla, spostò male un piede ed avvertì un dolore acuto alla caviglia. Ci mancava ancora una storta. Gemette piano e s’appoggiò alla vetrina di un negozio, sperando che il tizio non l’avesse avvistata. Guardandosi attorno scoprì che lui era scomparso. Tirò un sospiro di sollievo, e cercò di riprendere a camminare nonostante la caviglia gli provocasse qualche fastidio. C’era troppa gente e faticava a camminare. Svoltò un vicolo buio e si appoggiò ad una parete per verificare che la slogatura non fosse qualcosa di grave. Le faceva male.
Sentì un respiro caldo sul suo collo. Cacciò un grido voltandosi di scatto verso l’incappucciato che la stava osservando, e fece immediatamente per fuggire.
<< Ehi, dove stai andando?>> disse lui, con una voce stranamente giovanile. << non voglio farti del male.>>
Era un ragazzo con il cappuccio della felpa calato sugli occhi. Niente di pericoloso. Solo un ragazzo.
Samantha respirava ancora affannosamente. << Mi hai… spaventata.>>
<< Davvero?>> Lui si abbassò il cappuccio. << Va meglio così? O sembro ancora un delinquente?>>
La fece sorridere. << Va meglio.>> mormorò.
<< Ti sei fatta male? Non notato che correvi. Stavi fuggendo da qualcuno?>>
Lei cercò di guardarlo meglio in faccia. Era buio, faticava a distinguere il colore dei suoi capelli, ma aveva alcune lentiggini sul naso. << No, ecco… ho solo preso una storia.>>
<< Non sono un medico, ma da quel che vedo sembra ti faccia male. Dovresti andare al pronto soccorso.>>
Samantha si strinse nelle spalle. << Non sono di qui. Non so dove si trovi un ospedale.>>
<< Se vuoi ti ci posso accompagnare io.>>
<< No, aspetta, fermo…>> Lei lo guardò con diffidenza. << Non so chi sei, né cosa ci stai facendo qui… e nemmeno che intenzioni hai. Sai, mia mamma mi ha insegnato che…>>
<<… che non si parla con gli sconosciuti?>> disse il ragazzo, con un sorriso. << Mi chiamo Michael Robbins, se vuoi ti faccio vedere la carta d’identità.>>
<< No, non ce n’è bisogno.>> mormorò Samantha, sorridendo appena. << Sono qui per imparare la lingua. Studio all’Università di Roma. Diciamo che mi trovo in un casino abbastanza incasinato… troppo incasinato… perciò non ho portafoglio e nemmeno soldi nel cellulare, e stavo andando alla polizia ma…>>
<< Alla polizia? Ti hanno derubata?>>
<< No, no…>> Samantha abbassò il capo. <<… è un gran casino.>>
<< Senti.>> la interruppe Michael. << Io… bé… sempre se ti fidi di uno sconosciuto che ti vuole aiutare… ho la macchina parcheggiata qui vicino. Sono passato a prendere una pizza al Jackson’s Hole e me ne tornavo a casa. Posso darti un passaggio al pronto soccorso. Magari da lì riesci a chiamare i tuoi, gli dici che stai bene. Sono qui a Londra?>>
<< No… a Roma.>>
<< Ti posso aiutare. Mi dispiace lasciarti qui.>>
Samantha gli sorrise. << Ti ringrazio.>>
<< Senti…>> Il ragazzo le porse il braccio, dove lei poté aggrapparsi per riuscire a camminare. << Non mi hai ancora detto il tuo nome.>>
<< Oh… mi chiamo Sam.>> disse lei. << Sam Radclyffe.>>
Lui sgranò gli occhi, e la osservò. << Che razza di nome è Sam per una ragazza?>>
<< Forse il diminutivo di Samantha.>>
<< Oh…>> Il ragazzo sorrise. << Scusami. Ho fatto una delle mie tante belle figure… diciamo che non ho proprio il tatto quando ho a che fare con una ragazza. Aspetta, reggiti forte… c’è uno scalino.>> Risalirono sul marciapiede, e Sam ebbe una fitta alla caviglia. <<… la mia macchina è quella Citroén laggiù. Basta attraversare la strada e siamo arrivati.>>
Sam fu accecata dalle luci della sera. Michael aveva una di quelle piccole citycar comodissime per girare in città. Salì sul sedile anteriore, accanto alla postazione di guida, mentre avvertiva un’altra fitta di dolore. Strinse gli occhi e spostò lo sguardo fuori dal finestrino.
<< Ehi, Sam, tutto bene?>> domandò Michael, che era appena salito nella postazione di guida.
Sam avvertì un forte giramento di testa. Cercò di guardarlo in faccia, ma l’immagine del ragazzo era fortemente sfocata. << Non sto molto bene.>> mormorò. << Mi sento girare tutta la testa…>>
Avvertì il rumore dell’automobile che veniva messa in moto. << Non ti preoccupare. Ti accompagno al Royal Hospital. In meno di mezz’ora saremo arrivati.>>
<< Non so cosa mi stia prendendo…>>
<< Probabilmente è lo spavento. Rilassati. Se vuoi spengo la radio, se ti da fastidio…>>
<< No, no. Non importa. Tranquillo. Sta passando…>> Sam premette il viso contro il vetro freddo ed avvertì un lieve torpore. << Se mamma scopre dove mi sono cacciata mi ammazza.>>
<< Come mai sei sola a Londra a quest’ora?>> domandò Michael, con tono gentile. << Non è un posto molto sicuro la notte, specialmente qui a Soho… potresti cacciarti nei guai.>>
Sam sospirò. Decise di dirglielo. Le ispirava fiducia. << Ero qui per un interscambio culturale promosso dalla mia Università. Mi hanno assegnato ad una famiglia che sta poco distante da Chelsea. Bè… credo che tu abbia capito com’è andata a finire. Mi hanno cacciata.>>
<< Cos’è, gli hai distrutto la casa?>>
<< No, no…>> Sam sorrise. << Hanno usato una scusa banale. Erano stanchi di me, forse.>>
<< Che razza di gente.>>
<< Eh, già… sono state vacanze piuttosto spiacevoli.>>
Sentì il motore della macchina che emetteva un cupo borbottio. La Citroén frenò bruscamente. La cintura di sicurezza le premette contro il seno. Da quello che riuscì a vedere, avevano svoltato lungo un vicolo per evitare il traffico. << Dove siamo, Michael?>>
Michael le sorrise. << Una via secondaria. Faremo prima.>>
Poco dopo, però, aveva fermato del tutto la macchina, ed aveva spento il motore.
<< Dove siamo, Michael?>> ripeté lei, che iniziò ad avere paura.
Il ragazzo non smise mai di sorriderle con il solito piglio sereno. << Tra Regent’s Park e Victoria Street. E ti prometto che non ti farò nemmeno del male se tu sarai così gentile da consegnarmi quello splendido medaglione che stai portando al collo.>>


*

Le tenebre avvolgevano la Tana e le sue linee poco geometriche si stanziavano fiocamente alle spalle dei raggi lunari. Sembrava reggersi in piedi solo per merito della magia, come un castello di carte che prima o poi sarebbe crollato. Dalle finestrelle del primo piano le luci erano ancora accese.
Harry avanzò a bordo della 999 lungo il sentiero cercando di non fare troppo rumore. Il rombo cupo del motore poteva attirare gli gnomi da giardino che vivevano tra le sterpaglie attorno alla Tana. L’ultima volta che aveva lasciato la moto vicino a degli gnomi fu in occasione di un sopralluogo in una cascina di campagna vicino ad Hogsmeade, e gli avevano rosicchiato i copertoni.
Ci fu un rumore dietro la finestra, ed i borbottii delle galline in qualche capanno lontano interruppero il silenzio che si era instaurato nell’aia.
Fermò la 999 poco distante dal portone d’ingresso. Una luce improvvisa si riflesse sulla visiera del casco e ne rimase abbagliato. Qualcuno aveva appena spalancato la porta.
<< Chi va là?>> strillò una voce di donna.
Harry si accorse che la signora Weasley gli stava puntando contro la bacchetta. Più che altro, era seminascosta dietro l’imposta in legno massiccio e dava l’impressione di provare nei suoi confronti solo una profonda e risentita diffidenza. << Identificati!>>
Harry si sfilò il casco, con un lieve sorriso. << Sono Harry.>> disse. << Mi dispiace se arrivo a quest’ora. Probabilmente stavate andando a dormire.>>
La porta si spalancò e la signora Weasley rimase immobile ad osservarlo, piccola e rotonda, avvolta in una vestaglia verde. Lo guardava come se fosse un fantasma o un Mangiamorte venuto lì apposta per uccidere qualcuno. Poi il suo sguardo cambiò. Lo aveva riconosciuto. << Mio dio… sei proprio tu, caro?>>
Harry era a disagio. Strinse forte il casco sotto il braccio. << Credo… bé… le dispiacerebbe abbassare la bacchetta?>>
La signora Weasley si accorse solo in quell’istante che lo stava ancora tenendo sotto tiro. Ripose la bacchetta nel grembiule e gli si diresse incontro, riacquistando il suo solito, accogliente sorriso materno. << Harry, caro.>> disse, abbracciandolo. << Era quasi un anno e mezzo che non ti facevi vedere! Non sai quanto sono stata in pensiero per te.>> La sua stretta fu quasi soffocante. Quando si staccò, si alzò sulle punte per riuscire a prendergli il volto fra le mani, ed Harry fu costretto a chinarsi. << Mi fa piacere che tu sia qui, caro. Siamo stati in pena per te. Il Profeta non fa che parlare di rapimento e di uccisioni! Con il lavoro che fai… ho pensato che fossi uno dei primi esposti ai pericoli.>>
Harry sorrise, e la seguì oltre la soglia. La casa era uguale e identica dall’ultima volta che l’aveva lasciata. Vi regnava un disordine perenne e famigliare.
La signora Weasley lo portò alla luce dove poté esaminarlo meglio. << Uguale e identico a tuo padre, Harry.>> sospirò, sorridendogli. << Sei cresciuto molto. Quasi non ti riconoscevo.>> Gli portò una mano sul viso, accarezzandogli affettuosamente una guancia. << Ti sei fatto crescere la barba?>>
<< No, è solo che… bé…>> Harry le sorrise. Si riferiva all’accenno di barba che portava sul mento. Non lo sapeva, ma nel mondo babbano era piuttosto di moda. <<… ho solo dimenticato di radermi, stamattina.>>
<< Hai fame, caro?>>
<< Abbastanza.>> ammise lui, che si accorse solo in quel momento di quanta ne aveva.
<< Siediti, ti preparo qualcosa.>>
Mentre Harry sedeva, notò un rosso e grassoccio gatto dal pelo rossastro ed il muso schiacciato appollaiato vicino al davanzale, con aria sonnacchiosa. Improvvisamente un’ondata di eccitazione lo invase da capo a piedi. << Grattastinchi.>> sussurrò. <<… allora Hermione è qui?>>
La signora Weasley, che si stava avvicendando ai fornelli, scosse leggermente il capo. << Mi dispiace, caro. Ci ha solo lasciato il suo gatto due mesi fa, prima che partisse. Non sapeva a chi affidarlo, poverina… è un così bravo animaletto.>>
<< Partita?>> fece subito Harry. << Per dove?>>
<< Non l’ hai più sentita dopo che sei entrato al Ministero?>>
Lui scosse il capo. << Sono stato molto occupato in una missione piuttosto delicata.>> si giustificò, ben sapendo che la motivazione per quel distacco era un’altra. << Non ho nessuna notizia di lei.>>
<< E’ partita per l’Australia.>> disse la signora Weasley, con un sorriso intenerito. << Lavora per la Gringott adesso. L’ hanno assunta come ricercatrice.>>
Meglio in Australia come ricercatrice che in un luogo più vicino in viaggio di nozze.
<< Quindi… ricerca reliquie per la Gringott?>> fece Harry, fingendosi meno interessato di quello che era in realtà. << Devono pagarla piuttosto bene.>>
<< Certamente.>> disse la signora Weasley. << Più che altro, da quello che mi ha detto, si occupa di effettuare delle ricerche sul conto di alcuni oggetti andati dispersi. Sta lavorando dietro ad alcuni tesori. Non ho capito bene di cosa si tratti.>>
<< E Ron?>> proruppe Harry, mentre lei gli posò davanti un piatto vuoto. << E’ da un sacco che non lo sento. L’ultima volta che ci siamo visti era quasi sei mesi fa, prima della mia partenza per Londra.>>
La signora Weasley agitò la bacchetta e la pentola che ribolliva sui fornelli levitò in aria, spostandosi verso il tavolo e vuotando il suo contenuto fumante nella ciotola. Una densa e appetitosa zuppa di cereali e verdure, proprio come piacevano a lui.
<< Uova, caro?>>
<< Sì, perché no?>> sorrise Harry. << Allora, Ron come sta?>>
Lei fece scivolare in un altro piatto delle uova strapazzate e della pancetta affumicata. << Ho sentito che al Ministero stanno diventando matti con quei calderoni illegali che esplodono quando uno vi miscela dentro una pozione. Arthur ha dovuto fare un sacco di straordinari per riuscire a contattare tutti i fornitori e bloccare la produzione. Non ti dico come tornava a casa infuriato la sera…>>
<< Signora Weasley.>> la interruppe bruscamente Harry, che smise di mangiare e posò il cucchiaio sulla tavola apparecchiata. << Ron come sta?>>
Improvvisamente, fu come se un fantasma le avesse annebbiato il volto. La Signora Weasley si lasciò cadere stancamente sulla sedia accanto alla sua, e nascose il volto fra le mani, iniziando a singhiozzare. La prima cosa che Harry fece, fu quella di scordarsi la cena ed i borbottii di stomaco per posarle prontamente una mano sulla spalla, il cuore che batteva forte. << Dov’è Ron?>> chiese, sperando in una risposta positiva. << Sta bene, sì?>>
Lei pianse forte, e scosse il capo. << Io… non lo so!>> singhiozzò. << Harry, caro, mi devi credere… non è colpa tua… tu non c’entri assolutamente niente. Il Ministero ti ha affidato questo compito delicato, e tu lo stai portando a termine. E’ giusto che tu ti dedichi al lavoro…>>
<< Signora Weas…>>
<< C’è stato un attacco, poco tempo fa… dalle parti di Sheffield.>> proseguì la signora Weasley, tra un singhiozzo e l’altro, mentre Harry la stava ad ascoltare col fiato sospeso. << Ron giocava a quidditch, sai? Mi stupisco che non ti abbia detto niente, era così felice! Era entrato come portiere nei Tornado Tigers. Stavano giocando una delle prime partite di campionato, quando i Mangiamorte hanno attaccato lo stadio.>>
<< Oh, cristo.>> imprecò Harry. << E Ron?>>
<<… lanciavano maledizioni ovunque, e parecchi babbani si sono accorti dell’incidente… Chris Avery, il collega di mio marito… lui ha perso una gamba per colpa di un sortilegio Oscuro, e sua figlia è rimasta vittima sotto le macerie delle gradinate… e Ron… il mio Ron…>> Mentre parlava, scoppiò in lacrime. << Per fortuna lui non si è fatto molto male… ma un incantesimo deve averlo colpito alla testa, da quello che ha detto un dottore del San Mungo… non è più quello di sempre, Harry…>>
<< Adesso dov’è?>> disse Harry, preoccupato. << Nessuno mi ha informato di questo incidente. Nessuno mi ha mai riferito che…>>
<< Siamo stati noi a decidere di lasciarti all’oscuro di tutto, caro. Volevo dirtelo di persona. Sapevo che via lettera non l’avresti presa molto bene, e ti saresti precipitato qui… ma il tuo lavoro era troppo importante, poteva mandare all’aria la tua scopertura.>> singhiozzò lei, il volto rigato di lacrime. <<… e’ a letto adesso, ma domattina sono sicura che potrai andare a salutarlo… non credo che ti riconoscerà, Harry… ha perso quasi del tutto la memoria.>>
Harry si portò una mano nei capelli e scrutò la signora Weasley con una nota di profondo rammarico nello sguardo. Era come se tutte le false speranze che si era creato nella testa fossero esplose tutte assieme. Si sentiva vuoto, stanco e depresso, come se un masso gli premesse sgradevolmente sullo stomaco, fino a farlo gridare dal dolore. C’era una voce dentro di lui che si lamentava, sembrava strillare. Era la rabbia che in quel momento Harry stava provando nei confronti delle creature che gli stavano rovinando la vita. Non solo era stato un magiamorte a farlo licenziare, ma uno di loro aveva distrutto la serenità di una famiglia, aveva fatto del male al suo migliore amico. Non ci poteva ancore credere. In un attimo, si accorse che le sue mani tremavano. << Quando ero a Londra.>> soffiò, livido di rabbia. << Nessuno si è mai preoccupato di avvisarmi su ciò che sta accadendo qui. Ed ora che mi hanno buttato fuori, sono tornato per scoprire la distruzione che stanno seminando i Mangiamorte… quando ero convinto che il mio migliore amico stesse bene…>>
<< Buttato fuori?>>
<< Sì.>> sbottò Harry. << Ma ora… davvero… vorrei vederlo…>>
<< Non ancora, Harry.>> La signora Weasley, il volto rigato di lacrime, lo costrinse a risedersi, quando era già schizzato in piedi. << Sta dormendo. Rimani seduto, finisci di mangiare. So che è dura da accettare…>> Emise un altro singhiozzo. <<… ma anche se ti arrabbi, non servirà a granché.>>
Harry addentò penosamente un pezzo di pane, scrutando l’oscurità fuori dalla finestra. << Mi trovavo vicino a Carnaby Street, quando due Mangiamorte sono apparsi dal niente.>> mormorò, inghiottendo il boccone. << Ero lì per indagare su un traffico di tappeti illegali smerciati dall’oriente. Diciamo che ero nel posto sbagliato al momento sbagliato. Volevano architettare qualche strage di babbani, ed ho cercato di impedirglielo.>>
<< Harry, tesoro, hai solo fatto il tuo dovere… perché ti hanno licenziato?>>
<< Ho scagliato alcuni incantesimi in mezzo alla folla. Almeno cinquanta babbani mi hanno visto. Hanno seguito la lotta. Ho schiantato un Mangiamorte, l’altro è fuggito. Poi io mi sono accorto che tutti mi stavano guardando, e mi sono smaterializzato.>>
<< Ma almeno hai impedito che morissero degli innocenti, Harry…>>
<< Lo so.>> ringhiò Harry, provando un innato senso di rabbia. << Ma l’ hanno fatto. Mi hanno buttato fuori. Non c’è stata scusa né giustificazione che li abbia convinti. Ho già riconsegnato il distintivo. Non sono più del Ministero, né un Auror… né un Ordine di Merlino di Prima Classe…>> Il suo fiato venne meno, quando proseguì. <<… sono solamente Harry.>>



spero possa piacervi questa FF!!! [SM=x328930] :up:
20/08/2006 15:15
 
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